Sembiante

a cura di Giovanni Barracco

Da molti mesi un mesto sogno
Avevo da raccontarti
Nel quale tu mi comparivi
E io temevo di guardarti

Non con il viso tuo di quando
Già sento un grigio di tempesta
Negli occhi sommersi e spenti
Nel tuo distrarre la testa

Verso il paese senza luogo
E al punto che mai sarà
Quel punto uguale al suo contrario
Dove è stretta la verità

Eri in un chiuso vano e alto
Avevi un viso di dolore
Tu mi guardavi mi parlavi
Ma non udivo le parole

Benché volevo accarezzarti
Supplicarti – non far così
Mi fai piangere, assomigli
Senza il sorriso ad Arletty

Perdona la mia paura
Mio solo grande peccato –
Per quell’inezia che divide
Ciò che non è da ciò che è stato

Ma le mie mani erano aria
Non ti potevano tenere –
Del sogno restò soltanto
Un sale di lacrime vere

Con te nel chiuso vano e alto
Da me volata via –
Io nel mio letto steso e stanco
Fra l’enigma e la bugia

Tratto da: Giovanni Giudici, Lume dei tuoi misteri, Mondadori, Milano, 1984

Giovanni Giudici

Lume dei tuoi misteri

Nota generale al testo Bibliografia critica
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Sembiante


Nelle otto strofe di Sembiante si assiste al colloquio, probabilmente amoroso, tra un Io e un tu. L’argomento è il resoconto di un sogno – e il desiderio di raccontarlo – nel quale l’interlocutrice era apparsa, destando inquietudine e timore nell’Io lirico. A partire dal titolo, che può essere interpretato in modo anfibio, rimandando sia a “volto” che a “somiglianza”, tutta la poesia è costruita come un tentativo di affondare in un sogno, di riportare alla luce un sogno ed il suo significato più autentico. Un tentativo condotto in forma di colloquio, in cui il racconto slitta nel ricordo, e il ricordo, nel discorso diretto della quinta strofa, si tuffa nel sogno stesso, lo fa tornare in scena. Come tutte le vicende oniriche, anche in Sembiante si svolge un incontro, latore di una sommessa sofferenza, che tuttavia sembra rimanere confinata nelle emozioni del sogno, mentre il tono generale dell’Io che rievoca, per quanto sospeso nel mistero e senza soluzione al risveglio, sembra essere di dolcezza e malinconia. La strofa finale non sembra alludere a un rimorso, quanto allo struggimento nel ricordo e per il ricordo, al piacere anche amaro per un sogno in cui la rievocazione di una possibilità – anche se non colta, esperita – ha riportato il protagonista ad un tempo pieno di vita, i cui riverberi sono affondati nella psiche profonda, per riaffiorare infine nel sogno. La cantabilità della poesia crea un effetto cullante, in cui le coordinate spazio-temporali sembrano perdersi e il lettore stesso viene trasportato nell’universo indeterminato del sogno. In questo essere trasportato vi è un risultato ultimo della poesia, la capacità di costruire un colloquio, di tessere un rapporto di intimità e confidenza con il lettore stesso.

l’enigma e la bugia


La poesia di Giudici, contrassegnata da una netta opzione per la colloquialità e la tersità, tende comunque a farsi sfuggente nei significati, come nel caso della poesia di Saba, che Giudici conobbe e di cui qui riporta alcune impressioni.

steso e stanco


Nell’ultima strofa, l’assenza di un verbo – che rimanda all’implicito “restare” – pone un sigillo sul sogno e riporta ad una situazione di quiete, di stasi, contrassegnata dall’endiadi “steso/stanco”.

Con te nel chiuso vano e alto


La poesia nell’ultima sezione si fa di nuovo impalpabile e imprendibile nei significati: a tuo giudizio perché l’Io lirico si trova sospeso tra l’enigma e la bugia? In non più di trenta righi approfondisci il tema del rapporto che nel sogno si instaura tra enigma e bugia, tra, cioè, il mistero di quel che si sogna, e che spesso allude soltanto a qualcosa di più profondo e angosciante, ed il problema del rapporto tra verità e menzogna, che spesso nel mondo onirico si fa labile.

restò


Sai individuare in relazione a quali frangenti del sogno e della sua rievocazione il poeta ricorre all’uso del futuro semplice e del passato remoto?

Non ti potevano tenere –


La poesia presenta una struttura a climax concettuale: le prime due strofe prendono le mosse da elementi descrittivi e narrativi, da una realtà ancora definibile e definita, e culminano, in un crescendo di indecidibilità, nella terza strofa, in cui il mistero del senso avvolge la quartina. Allo stesso modo, la quarta e la quinta strofa, in cui torna una limpidezza del racconto, preludono alla sesta, in cui il mistero riguarda il segreto, la frattura, tra l’Io e la presenza, “inezia che divide ciò che non è da ciò che è stato”. La poesia tende così ad uno zenit lirico che coincide con la settima strofa e lo struggente tentativo, prima del risveglio e del ripiegamento finale, di trattenere, abbracciare la figura sognata – che rimanda al tòpos classico dell’incontro con i morti dei poemi greci e latini, ad Odisseo che prova a stringere l’ombra di Anticlea, Enea che prova a stringere quella di Anchise.

Ma le mie mani erano aria


Nello slittamento verso la dimensione del sogno, un ruolo importante è svolto da alcune figure retoriche quali metafore, analogie, similitudini. Rintraccia queste figure retoriche nel testo.

Ciò che non è da ciò che è stato


A tuo giudizio, per quale motivo il protagonista del sogno chiede perdono alla sua interlocutrice? Quale può essere la colpa – che pure, a quanto pare, è “un’inezia”, che ha incrinato il rapporto tra lui e la sua interlocutrice?

grande peccato


La sesta strofa, come la terza, eleva il discorso e lo complica di significati profondi: l’aria si fa rarefatta e l’atmosfera, onirica, si carica di suggestioni metafisiche e di rimandi memoriali. Sembra che l’Io chieda perdono per una paura (“Mio solo grande peccato”) che si lega ad un trascorso comune, una paura che ha fratturato il rapporto (“Per quell’inezia che divide/ Ciò che non è da ciò che è stato”).

Perdona la mia paura


In un colloquio con Oreste Pivetta, Giudici, rievocando la sua attività politica, poi il suo rapporto con Olivetti, afferma che «ci serve una concezione unitaria del mondo non come disegno dogmatico ma come aspirazione a una totalità: questo ancora ci lascia la speranza. Una visione morale d'insieme dice che se tu fai questo ne consegue quest'altro. Obbliga alla coerenza e implica un progetto di trasformazione». Si deduce, cioè, dalle sue parole, come nella poesia – anche la poesia che, pur crepuscolare, sembra non coinvolgere il tema etico – la tensione morale sia un fatto necessario, il coinvolgimento morale ineludibile.

Arletty


Si tratta dell’attrice francese Léonie Bathiat (1898-1992) che conobbe una straordinaria popolarità negli anni Quaranta, in pellicole quali L'amore e il diavolo (1942) e Amanti perduti (1945). Questi due lungometraggi, nati dalla collaborazione del regista Marcel Carné con il poeta Jacques Prévert, autore del soggetto e della sceneggiatura, sono considerati i più importanti film del cosiddetto realismo poetico francese.

non far così


Che tipo di rima è quella tra i versi 18 e 20 (così/Arletty)? La poesia presenta uno schema rimico preciso: quale è?


Si tratta della sola cesura forte della poesia: che cosa essa sottolinea, in questo passaggio?

volevo


La presenza cruciale del tempo imperfetto crea un effetto di complessiva consonanza e piana cantabilità che riproduce e restituisce il tono e l’atmosfera della rievocazione, sospesa tra colloquio e ricordo, sogno e realtà.

Ma non udivo le parole


Un determinante effetto retorico è dato dalle forme verbali che si susseguono nel testo. Riporta tutti i verbi in una tabella; Di ciascuno di essi specifica quali sono i modi e i tempi utilizzati. Quindi, in non più di 10 righi, spiega quale è, a tuo giudizio, il motivo per cui il poeta ha scelto di ordire una trama verbale in cui si intrecciano tempi differenti.

Dove è stretta la verità


La poesia si compone di otto strofe di quartine di novenari e ottonari alternati. La scelta del novenario e dell’ottonario è tipicamente novecentesca. Ritenuto monotono da Dante, il novenario viene ripreso da Pascoli e si riafferma nel Novecento. L’ottonario, usato ampiamente nel Quattrocento, è il verso della Ballata (come nella Canzona di Bacco di Lorenzo de’ Medici). Tornato in auge nel Novecento, è un verso facilmente cantabile, tipico della cantilena, agile da mandare a memoria (è il verso di molte filastrocche e fiabe in versi per bambini). 

Ottonari e novenari in Sembiante diventano uno strumento che, con un andamento così cantilenante, rimanda alle filastrocche per dormire dei fanciulli e quindi rende visibile, plastica, l’atmosfera sospesa tra sogno e realtà, racconto e rievocazione della poesia. Inoltre, si tratta di versi adatti per una poetica, come quella di Giudici, che opta per una lirica accessibile, musicale, piana e cantabile. 

Una versificazione così melodiosa e cullante, inoltre, è capace di rendere impercettibile, e quindi vertiginoso lo slittamento dal piano del reale al piano metafisico, dalla descrizione degli elementi alla fuga in avanti del sogno verso il mistero, l’insondabile.

mai sarà


Al futuro semplice e al passato remoto sono legati il momento più alto della lirica, in cui la visione del sogno è abbacinata dalla luce del suo significato misterioso, per un attimo intuibile.

senza luogo


Il resoconto del sogno è solo apparentemente lineare: in non più di dieci righi riassumine il contenuto e gli snodi principali.

il paese


In questo breve video Giovanni Giudici, dopo aver letto Casa estrema, riflette sui luoghi della sua infanzia e le case della sua vita, inclusa l’ultima, dove ha scelto di abitare in tarda età, nella provincia spezzina. Come in tutti i poeti liguri, anche in Giudici la terra, il paesaggio della sua regione rivestono un ruolo importante all’interno della sua poetica.

Da molti mesi un mesto sogno


Vi è una fitta trama di effetti fonici che restituisce la vaghezza indeterminata del paesaggio onirico e la sfuggente realtà del racconto: individua le numerose allitterazioni che scandiscono il testo. (Es.: v. 1: “da molti mesi un mesto sogno”).

Giovanni Barracco


Assegnista di Ricerca in Letteratura italiana (L-FIL-LET/10) presso il Dipartimento di Studi letterari, filosofici e di Storia dell’Arte dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, è Professore a contratto del corso di Letteratura italiana contemporanea (L-FIL-LET/11) presso l’Università “LUMSA”, sede di Palermo, e del Laboratorio di Didattica della letteratura presso l’Università “LUMSA”, sede di Roma. Fa parte della redazione della rivista Testo e senso. Ha pubblicato Vocazioni irresistibili, vuoti vertiginosi. Il romanzo di formazione negli anni Ottanta del Novecento (Studium). I suoi interessi si concentrano sul romanzo del Novecento, il romanzo di formazione e la narrativa degli anni Settanta ed Ottanta. Ha pubblicato saggi su Aldo Busi, Andrea De Carlo, Antonio Delfini, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Pier Vittorio Tondelli, Franco Vegliani.

Sembiante a cura di Giovanni Barracco


Una sintesi della poesia

Nelle otto strofe di Sembiante si assiste al colloquio, probabilmente amoroso, tra un Io e un tu. L’argomento è il resoconto di un sogno – e il desiderio di raccontarlo – nel quale l’interlocutrice era apparsa, destando inquietudine e timore nell’Io lirico.

La forma del testo


Il metro e il verso

Sono otto strofe di quartine di novenari e ottonari alternati.

La scelta del novenario e dell’ottonario è tipicamente novecentesca. Ritenuto monotono da Dante, il novenario viene ripreso da Pascoli e si riafferma nel Novecento.
L’ottonario, usato ampiamente nel Quattrocento, è il verso della Ballata (come nella Canzona di Bacco di Lorenzo de’ Medici). Tornato in auge nel Novecento, è un verso facilmente cantabile, tipico della cantilena, agile da mandare a memoria (è il verso di molte filastrocche e fiabe in versi per bambini).

Ottonari e novenari in Sembiante diventano uno strumento che, con un andamento così cantilenante, rimanda alle filastrocche per dormire dei fanciulli e quindi rende visibile, plastica, l’atmosfera sospesa tra sogno e realtà, racconto e rievocazione della poesia. Inoltre, si tratta di versi adatti per una poetica, come quella di Giudici, che opta per una lirica accessibile, musicale, piana e cantabile.
Una versificazione così melodiosa e cullante, inoltre, è capace di rendere impercettibile, e quindi vertiginoso lo slittamento dal piano del reale al piano metafisico, dalla descrizione degli elementi alla fuga in avanti del sogno verso il mistero, l’insondabile.

Una sola cesura forte è presente nella poesia, quando il racconto passa al discorso diretto, al v. 18 (“Supplicarti – non far così…”)

La rima e le figure retoriche di suono

Il secondo e il quarto verso di ogni strofa sono in rima, inclusi i vv. 18-20 della 5a strofa che presentano una rima al suono (“così/ Arletty”).

Ci sono delle rime al mezzo (5a strofa, vv. 17-18: “accarezzarti/ Supplicarti”).

Più in generale, vi è una fitta trama di effetti fonici che restituisce la vaghezza indeterminata del paesaggio onirico e la sfuggente realtà del racconto: sono presenti numerose allitterazioni (v. 1: “da molti mesi un mesto sogno”; vv. 13 e 29: “Eri in un chiuso vano e alto”; v. 25: “Ma le mie mani erano aria”; v. 30: “Da me volata via””).

Nel testo la presenza cruciale del tempo imperfetto crea un effetto di complessiva consonanza e piana cantabilità che riproduce e restituisce il tono e l’atmosfera della rievocazione, sospesa tra colloquio e ricordo, sogno e realtà (“Avevo…comparivi…temevo…avevi …guardavi…parlavi…udivo” ecc.).

Le figure retoriche di posizione e di significato

Lo scenario sospeso tra sogno e rievocazione e l’imprendibilità del sogno che, mentre viene descritto, sembra sfarinarsi tra le dita dell’Io che racconta emerge anche attraverso un colloquio costruito in forma di climax, in cui anafore, ripetizioni, analogie e metafore conferiscono al discorso un andamento incalzante, anche interrogativo, in cui lo struggimento per la difficoltà di tenere la figura sognata coincide con l’impossibilità di trattenere il sogno, di afferrarlo per poterlo svolgere e dipanare.

La poesia ha una struttura a climax concettuale: le prime due strofe prendono le mosse da elementi descrittivi e narrativi, da una realtà ancora definibile e definita, e culminano, in un crescendo di indecidibilità, nella terza strofa, in cui il mistero del senso avvolge la quartina. Allo stesso modo, la quarta e la quinta strofa, in cui torna una limpidezza del racconto, preludono alla sesta, in cui il mistero riguarda il segreto, la frattura, tra l’Io e la presenza, “inezia che divide ciò che non è da ciò che è stato”.

Nel complesso, la poesia tende ad uno zenit lirico che coincide con la settima strofa e lo struggente tentativo, prima del risveglio e del ripiegamento finale, di trattenere, abbracciare la figura sognata – che rimanda al tòpos classico dell’incontro con i morti dei poemi greci e latini, ad Odisseo che prova a stringere l’ombra di Anticlea, Enea che prova a stringere quella di Anchise.

Nello slittamento verso la dimensione del sogno, un ruolo importante è svolto da alcune metafore (v. : “le mie mani erano aria”), analogie (v. 14: “un viso di dolore”; v. 6: “grigio di tempesta”) e similitudini (vv. 19-20: “assomigli…ad Arletty”), ma anche dal discorso diretto che si fa quasi affannoso, procedendo per asindeto (vv. 15-16: “Tu mi guardavi mi parlavi”) e privo di interpunzioni.

Un determinante effetto retorico è dato dalle forme verbali. Gli imperfetti creano lo spazio suggestivo del sogno e restituiscono il pathos della rievocazione dell’Io lirico.
I tempi al presente, invece, scandiscono i momenti in cui l’immagine del sogno si fa rarefatta e sfuggente, i momenti della vertigine del significato, in cui il senso della poesia slitta verso un piano superiore.

Al futuro semplice e al passato remoto sono legati il momento più alto della lirica, in cui la visione del sogno è abbacinata dalla luce del suo significato misterioso, per un attimo intuibile (vv. 10-11: “E al punto che mai sarà/ Quel punto uguale al suo contrario/ Dove è stretta la verità”), e il momento del risveglio, del ritorno alla narrazione (vv. 27-28: “Del sogno restò soltanto/ Un sale di lacrime vere”).

Nell’ultima strofa, l’assenza di un verbo – che rimanda all’implicito “restare” – pone un sigillo sul sogno e riporta ad una situazione di quiete, di stasi.

Un tentativo di interpretazione

Si tratta di un testo in cui forma e sostanza si determinano reciprocamente, ed il loro rapporto è consustanziale. È, anche, una poesia da cui si può evincere come una sintassi semplice e un linguaggio accessibile, in un metro cantabile, riescano comunque a portare il lettore nelle acque profonde del significato, verso il mistero della realtà.

A partire dal titolo, che può essere interpretato in modo anfibio, rimandando sia a “volto” che a “somiglianza”, tutta la poesia è costruita come un tentativo di affondare in un sogno, di riportare alla luce un sogno ed il suo significato più autentico. Un tentativo condotto in forma di colloquio, in cui il racconto slitta nel ricordo, e il ricordo, nel discorso diretto della quinta strofa, si tuffa nel sogno stesso, lo fa tornare in scena. Come tutte le vicende oniriche, anche in Sembiante si svolge un incontro, latore di una sommessa sofferenza, che tuttavia sembra rimanere confinata nelle emozioni del sogno, mentre il tono generale dell’Io che rievoca, per quanto sospeso nel mistero e senza soluzione al risveglio, sembra essere di dolcezza e malinconia. La strofa finale non sembra alludere a un rimorso, quanto allo struggimento nel ricordo e per il ricordo, al piacere anche amaro per un sogno in cui la rievocazione di una possibilità – anche se non colta, esperita – ha riportato il protagonista ad un tempo pieno di vita, i cui riverberi sono affondati nella psiche profonda, per riaffiorare infine nel sogno.

La cantabilità della poesia crea un effetto cullante, in cui le coordinate spazio-temporali sembrano perdersi e il lettore stesso viene trasportato nell’universo indeterminato del sogno. In questo essere trasportato vi è un risultato ultimo della poesia, la capacità di costruire un colloquio, di tessere un rapporto di intimità e confidenza con il lettore stesso.

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Porto Venere (SP), 26 giugno 1924 – La Spezia, 24 maggio 2011

Giovanni Giudici nasce in Liguria, nel borgo di Le Grazie, una frazione di Porto Venere in provincia della Spezia il 26 giugno 1924. Gli anni della prima infanzia sono segnati dalla morte della madre nel 1927 – che stava educando il figlio secondo i principi del cattolicesimo – e dal dolore per l’allontanamento dal borgo natio dopo il nuovo matrimonio del padre. Profondamente legato ai nonni materni, Giudici sofferse il trasferimento della famiglia prima a Cadimare, sempre in provincia della Spezia, poi nel capoluogo spezzino stesso. Soltanto alla fine della Quinta elementare, e poi, negli anni seguenti, durante le estati, gli sarà possibile tornare a Le Grazie. Al séguito del padre si trasferisce a Roma a nove anni, dove frequenta le scuole medie e ginnasiali, compone le prime prove poetiche e inizia a leggere, con intensità, i maggiori testi della letteratura europea. Dopo aver frequentato il Liceo “Giulio Cesare”, si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia – dopo aver inizialmente scelto Medicina – laureandosi infine in Letteratura Francese. 

Negli anni della Guerra, mentre proseguono le sue letture, che ora riguardano anche poeti e narratori italiani contemporanei, si avvicina al Partito d’Azione, alle cui attività e ai cui incontri clandestini partecipa. Di formazione cattolica – una identità che manterrà nel tempo, in forma aperta e problematica – e vicino politicamente alle posizioni della sinistra, nelle forme del PSIUP prima e del PCI in séguito, nel Secondo dopoguerra Giudici intensifica la sua attività presso riviste e quotidiani, tra cui il «Corriere della Sera», «L’Unità», «L’Espresso», «Il Secolo XIX», e viene assunto da Adriano Olivetti, trasferendosi infine a Milano. Negli anni Sessanta pubblica le sue prime raccolte di versi, su invito e consiglio di Vittorio Sereni. Nel 1963 pubblica la sua prima raccolta, L’educazione cattolica, che confluirà in La vita in versi del 1965. Del 1969 è Autobiologia, cui seguono Il male dei creditori (1977), Lume dei tuoi misteri (1984), Fortezza (1990). Le sue ultime raccolte sono Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996), Eresia della sera (1999). Dopo essere tornato nella nativa Porto Venere, muore a La Spezia nel 2011. La poesia di Giudici si fonda su un rapporto di confidenza con la parola, e si presenta come uno strumento di autodifesa e come un dono vitale intorno al quale costruire la resistenza dell’Io davanti alla modernità; il suo verso è «post-ermetico, colloquiale e teatrale, cantabile e ripetibile, privo di enfasi» (Berardinelli). I suoi riferimenti sono Saba e Caproni, Montale e Pascoli, sia nei temi che nei metri, per la cantabilità e la tersità semantica e lessicale. La poesia, carica di una tensione morale e civile legata al tempo mobile della piena modernità, cerca di legare il tema autobiografico alle radici biologiche, storiche e culturali che definiscono il soggetto. La poesia vuole essere «una sorta di espansione biologica dell’io» (Ferroni). Nella sua opera l’attenzione allo sperimentalismo, tipico della linea lombarda, si salda al desiderio di una poesia vitale, che esprima e colga la verità dei rapporti umani, la loro fecondità, in una prospettiva neo-umanistica e sociale.

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La raccolta Lume dei tuoi misteri, pubblicata da Mondadori nel 1984, è costituita da tre gruppi di testi, Accordi, Ghirlandetta, Akt. Qui, la parola di Giudici indaga le ombre e le pieghe della realtà, il rapporto tra verità e finzione, in un susseguirsi di frammenti tra i quali baluginano illuminazioni improvvise, improvvise rivelazioni.

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  • A. Bertoni, Una distratta venerazione. La poesia metrica di Giudici, Bologna, Book editore, 2001;
  • A. Cadioli (a c. di), «Metti in versi la vita». La figura e l’opera di Giovanni Giudici, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014;
  • A. Cadioli, La poesia al servizio dell’uomo. Riflessioni teoriche nel primo
  • Giudici, «Istmi» 29-30, 2012, pp. 99-119.
  • G. Giudici, La vita in prosa. Scritti biografici, letterari, politici, a c. di S. Guerriero e O. Pivetta, Roma, Edizioni dell’Asino, 2021;
  • G. Giudici, I Versi della vita, a c. di R. Zucco, Milano, Mondadori, 2000.
  • P. V. Mengaldo, Per un saggio sulla poesia di Giudici, «Hortus. Rivista di poesia e arte» n. 18, numero monografico su Giovanni Giudici, 1995, pp. 19-28.
  • S. Morando, «Versi di alta ispirazione». La poesia di Giudici da «Fiorì d’improvviso» a «L’intelligenza col nemico», «Istmi» 29-30, 2012, pp. 61-96.
  • S. Morando, Vita con le parole. La poesia di Giovanni Giudici, Pasian di Prato, Campanotto Editore, 2001;
  • L. Surdich, Giovanni Giudici, la semplicità, il tempo, in «Nuova Corrente», a. XLVI, febbraio 1999, pp. 67-110;
  • S. Verdino et al. (a c. di), Per Giudici, Avellino, Sinestesie, 2013.
  • R. Zucca, Fonti metriche della tradizione nella poesia di Giovanni Giudici, «Studi Novecenteschi», Vol. 20, No. 45/46 (giugno-dicembre 1993), pp. 171-208.